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Pictura activa

Lo spazio del segno e del colore

nelle opere di Enzo Cino

Più che mai le cose

Precipitano, quelle esperite, perché

È un fare senza immagine che le sostituisce una volta svanite.

Friedrich Hölderlin

L’esperienza d’artista di Enzo Cino attiene alla dimensione singolare e ‘necessaria’ dell’arte. Pittura ‘attiva’ è il sentiero che l’artista percorre, con l’intensità di un cercare che mette in gioco la memoria dell’anima in rivelazioni di un altrove che ‘abita’ il linguaggio immaginativo. Nei cicli della pittura in Cino si rivela la coscienza della precoscienza, in un esercizio del fare che nel divenire delle forme e dell’informe riflette il ‘sogno’ dell’irrappresentabile. Di una dimensione prelogica e a-temporale, ‘paesaggio’ di un ‘non-mondo’ che s’incarna nel gesto dell’artista. Le opere di Cino si formano nel loro alchemico trasmutare con segni balenanti, con spazi di colore. Chiari diafani, saturazioni tonali ma anche di umbratili intrecci di neri e bianchi, tra dilatazioni, concentrazioni e debordamenti di segni sono la trama di una pulsione espressiva che manifesta il suo possibile sublimarsi incarnandosi nella materialità dell’opera. La singolarità della pittura è appunto nell’intrattenibile ‘darsi a vedere’ di una tensione sempre generante, più che di una chiusa forma, di una pittura eventica come evento della pittura.

Dunque profonda superficie della pittura. Una pittura che non è semplice gioco di segni indifferenti alla tensione tra verità e apparenza,  una pittura che mette in gioco se stessa nell’interrogazione di ciò che non sappiamo, di ciò che non vediamo, di una profondità che emerge nelle  variabili scansioni cromatiche degli andamenti della superficie. In sfrangiamenti e fratture, come di matrici mutanti che forzano i limiti della tela, l’opera della pittura si fa accadimento del possibile. Di un destino ignoto che l’actus pittorico intravede e attende.

Della pittura si è profetizzato spesso l’esaurimento, si è detto di un linguaggio ormai superato dalle ‘nuove’ possibilità tecno-mediali e performative dell’arte. È un’opinione che nella sua semplificazione critico-storica è divenuta, in diverse interpretazioni, uno stanco pregiudizio. La pittura, in realtà, persiste e si trasforma, dura nel tempo con le sue metamorfosi, imprevedibili e, spesso, d’inquieta intensità, immaginativa e poetica. Persistenza che si evince dalle significative espresssioni di diramate esperienze pittoriche nella  molteplicità dei linguaggi artistici contemporanei.

Nelle opere di Enzo Cino la superficie si estende e insieme si concentra nell’evocazione segnica e nella materia cromatica di memoria del gesto pittorico, nel quale il passato è proiettato, in sincronia temporale, nel presente diveniente dell’a-venire dell’opera. È un tempo non causale, non lineare, in cui è sospesa ogni interazione con la realtà cronologica.  L’opera della pittura trova la sua attualità attraverso lo scarto che in essa si genera con il ciclo delle cose. Il tempo dell’arte è però asincrono con le evoluzioni del logos e dell’azione calcolante: anche se ne avverte i riflessi, la pratica artistica ne sconvolge i paradigmi e gli schemi conoscitivi.

La natura della pittura tende a destituire il logos, sfugge alla sua finalità di conoscenza razionale, volta all’utile scopo, ma essa non è separata, sussulta all’interno del processo conoscitivo logico, come irriducibile Alterità. La dimensione conoscitiva dell’arte invece attiene alle perturbazioni dell’essere nel tempo delle cose. La pittura di Cino di questo paradosso generativo è attiva testimonianza. 

Il senso del Contemporaneo non è ascrivibile alla connivenza con il senso dominante, piuttosto il senso risuona sempre di una sospensione e di un’attesa. Come se i linguaggi fossero generati da un’attitudine alla controversia con le definizioni, al conflitto con il presente e alla devianza dal ‘senso unico’.  La pittura – “fiore delle arti”, la disse Leon Battista Alberti – ne rappresenta il ‘corpo’ impetuoso e ibrido, con le sue fluttuazioni e variazioni, incarnazioni dello spirito che ‘lavora’ matericamente la sua forma.Il corso della pittura di Enzo Cino ha coerenza e mutazioni, come un fiume che è sempre lo stesso e però mutevole.  Nel suo ‘divenire’ resta l’alveo nel quale scorre come un magma di plurime formazioni, come in vulcanica diffusione materica di geotermica energia

Dai suoi esordi figurativi già s’intravede attenzione alla struttura della superficie, in un obliquo dialogo con le sintesi ‘costruttive’ cezanniane. Le nature morte di quel tempo sono pervase da slittamenti delle cose verso lo spazio, come in una vibrazione cromatica che ne rende instabile la permanenza materica e formale. Si comprende come quelle opere annunciassero altri percorsi, in un’irruzione del gesto che struttura la superficie in piani oscillanti tra vuoto e pieno. Così che s’intravede la scansione ‘paesaggistica’ dello spazio, d’invisibili orizzonti e di mobili forme fluttuanti, espanse non-forme evocative di efflorescenze e ramificazioni. Di un oltrepassare  della natura e delle cose in una dissolvenza di frammenti di forme-colore frastagliate e de-composte nelle quali si aprono varchi e fughe verso l’infinito. L’opera appare inflessa nelle luci del giorno e della notte, è in continuo cangiamento, ibridata in variazioni di passaggi e stratificazioni. In alcune tele appare graffito un sinuoso movimento circolare, vortici di rossi che aprono ‘visioni’ sul principio cosmico delle cose.

È nella policroma materiazione del ‘sentire’ che lo sguardo è coinvolto, nelle variazioni delle accensioni delle superficie, in un palinsesto in multiformi andamenti del gesto pittorico, di lacerazioni e di legami, di trasparenze e di densità, di scioglimento, solidificazioni, dissonanze. La pittura everte ‘il segreto’ dell’opera nello sguardo che percependone la profondità di superficie l’attraversa, in una dimensione d’indefinibilità che fa apparire lo spazio dei segni sempre tessuto di risonanze psico-topiche, come cangianti ‘riflessi’ dell’anima. È la memoria non di luoghi ma di ‘sensazioni’ che permea le opere di Cino.  Il soggetto e l’oggetto si dissolvono nell’apparire di un ‘mondo altro’,  in un non-dove nel quale l’io si ritrae lasciando passare ciò che non è definibile. 

Uno spazio senza coordinate che pulsa e si distende ‘in silenzio’, come un respiro dell’incommensurabile. Dove le cose spariscono, assorbite e restituite dalla pittura come ‘potenza’ lirica nelle tracce di un’architettura dell’invisibile. L’evocazione di un altrove è la ricerca di Enzo Cino, dove transita l’ombra delle cose, trasfigurata in proiezioni rapsodiche del gesto pittorico. Un gesto che sembra volto a cercare uno spazio di senso dentro la formazione aniconica della materia cromatica. 

In alcune opere la variazione dello spettro cromatico è annullata dalla polarizzazione del bianco  e nero che s’incrociano in sovrapposizioni, interazioni e mescolamenti originando lacerti e fessure di grigie striature e filamenti.  L’origine delle gamme cromatiche, di densa variabilità, è nella memoria della natura naturans: azzurri e verdi echi del cielo e della terra feconda, gialli cromi aspri ma addolciti anche  dalla tangenza di delicati celesti e bruni, rossi nelle intensità magmatiche, sanguigne e solari fanno una danza di frammenti tesi al loro annodarsi in ‘corpi’ e spazi indistinti, ignoti allo sguardo quotidiano, aperture dell’anima verso territori inauditi del visibile. Come se Cino ‘pensasse’ in pittura un’altra natura o forse a un senso profondo della natura visibile. Pur nel solco delle esperienze ‘informali’, la pittura di Cino ne scava le possibilità su una ricerca non dissolutoria ma a suo modo ‘edificativa’. In questo, pur nelle radicali differenze ‘poietiche’, si può avvicinarla all’espressionismo astratto di Emilio Vedova e alla singolare versione informale di tensione ‘architettonica’ di Pierre Soulages o alle fluttuazioni di materia e segno della pittura di Asger Jorn.. In alcune soluzioni può ricordare anche l’opera di Afro, nei risvolti più lirici e ‘memoriali’.

Nell’operare di Cino si avvertono anche consonanze con l’espressionismo astratto americano che si declinò nell’Action Painting e nel Color-field Painting. Il primo rivolto all’automatismo gestuale tesa all’espansione ‘infinita’(Pollock, de Kooning, Kline), l’altro alla condensazione di spazi cromatici ( Rothko) e di ‘figure’ segniche (Motherwell, Guston, Still).

Eppure, nell’operare di Cino, risuona sopra e sotto traccia, la radice di luce e colore della ‘scena’ napoletana, nelle sue eclatanze espressive, antropologiche e di fenomenologie ambientali. Nell’area napoletana e  più generalmente nel panorama  italiano, la versione informale nella pittura ha avuto distinzioni essenziali da quella europea e americana. L’eco di una radice antropologica traspariva nelle opere nucleari degli artisti del Gruppo 58. L’informale di Waschimps era di drammatica flessione e in Cajati tendeva quasi ad una ‘narrazione’  di materie e frammenti cromatici di trasparenze e corrosioni.  Colucci, invece svolgeva il suo particolarissimo dripping con vocazioni cosmologiche e misteriche.

 L’opera di Enzo Cino appare come una interazione tra il disincanto ‘nordico’ e americano ( pur nelle varianti germinative (Pollock) e di segno(Motherwell, Guston) e le emozionate, memoriali e geo-antropologiche delle vicende dell’arte italiane, in specie a Napoli.    

Nella natura della pittura (non ‘pittura della natura’) di Cino i piani percettivi s’intrecciano in un’incondizionata modificazione, come in una efflorescenza illimitata. Una ‘anima’ inquieta che movimenta le faglie pittoriche, come in un pensiero che ha una parte di contro-pensiero, e l’incrociarsi dei due genera una visione dell’impossibile. Dove l’autore è coinvolto nel circolo delle mutazioni e ritratto nell’altra natura, egli medesimo come  vocato in impensabile alterità di senso  che destituisce il concetto e ‘incontra’ il mistero, non solo di mondi ‘nascosti’ ma anche della pittura medesima. La via che percorre Enzo Cino è d’imprevedibili sviluppi pur nella matrice essenzialmente dall’artista interiorizzata: la pittura come tempo dell’essere al mondo che trascende la sua limitatezza, in cui il ‘finito’ dell’opera concreta è eco trans-colorante dell’infinito.